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Mettendo assieme libri, racconti e riflessioni l’idea che mi sono fatto è questa: nel trentennio ’70-’90 le Terapie Brevi fecero parlare molto di sé. Poi la voce si attenuò, o meglio, fu coperta dal più intenso vociare di terapie che davano maggior risalto al costruire rigorosi risultati “evidence based”

Ma il punto è un altro.

Tolto che, come accennato, la voce fu coperta ma non attenuata (si è parlato e ancora tanto si parla di Terapie Brevi, con pubblicazioni forse addirittura aumentate rispetto ad allora), il punto è che da dire hanno ancora molto.

Non sono un nostalgico. Il nostalgico si affaccia alle finestre dei tempi che furono e, come chi solo scrolla il feed di Instagram, allontana dagli occhi la possibilità di un cambiamento presente.

 

– E lunghi funerali, senza tamburi né musica,

sfilano lentamente nella mia anima;

vinta, la Speranza piange; e l’atroce Angoscia, dispotica,

pianta sul mio cranio chinato, il suo vessillo nero.

 

Mi spaventa!

Soprattutto perché le Terapie Brevi hanno da dire, oggi, forse più di allora.

Se oggi i temi del costruttivismo, nelle declinazioni “radicali”, sono quasi una conditio sine qua non di molte importanti terapie, i meriti vanno anche e in larga parte a terapeuti brevi come Paul Watzlawick.

E ancora di una cosa, tra le tante, devono parlare affinché la comunità internazionale la recepisca: di efficienza.

Lo scorso anno ho invitato sulle pagine della Rivista Sperimentale di Freniatria Peter Cornish per parlare della Stepped Care 2.0, in cui le Terapie Brevi si inseriscono perfettamente. Volevo che ci si concentrasse sui “primi step” perché se di precision mental health e multiple variable baseline approach sentiremo parlare sempre di più come clinici, un errore sarebbe quello di voler per forza cominciare dal quinto gradino senza prima aver provato a fare il primo.

“Con meno si può fare di più” potrebbe essere il sottotitolo del V Simposio di SST di Jessica Schleider, PhD e le Terapie Brevi hanno molto da dire su come muoversi fin dai primi gradini, evitando che i servizi di cura costruiscano costosi castelli laddove era raccomandato un rapido riparo. È un dibattito epistemologico, prima ancora che metodologico.

Un esempio che amo è quello in cui Jeff Young propose a un servizio di salute mentale di iniziare con la SST e solo dopo, se venivano richieste altre sedute, sottoporre i pazienti al processo di assessment: i drop out si ridussero notevolmente. Le persone potevano finalmente accedere ed essere aiutate. Non male, considerando che non serve a nessuno una terapia che non cura. Perché altrimenti, come dice la battuta: “L’operazione è riuscita, ma il paziente è morto.”

Rimango in ascolto – e partecipo a mio modo – su ciò che le Terapie Brevi vanno dicendo.

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