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I pazienti sono tutti uguali?

E i terapeuti?

 

Mi sono imbattuto nell’articolo del 1966, “Some myths of psychotherapy research and the search for a paradigm”, di Donald Kiesler, che parla di alcuni miti della ricerca in psicoterapia.

 

Uno in particolare è “il mito dell’assunzione di uniformità”, suddiviso in due miti principali: l’uniformità dei pazienti e l’uniformità dei terapeuti.

 

Siamo vittime di questo mito quando l’assunto di base del nostro operare è che i pazienti all’inizio di un trattamento siano più simili che diversi (“I Borderline”, “Gli ADHD”, “Oh ecco ‘un ossessivo’! Non toccarlo, o non smetterà più di pulirsi!”), un’idea che al tempo ha portato a metodi di selezione piuttosto semplicistici.

 

In molti studi, infatti, i pazienti non erano scelti in modo rigoroso, ma accettati in blocco solo perché avevano cercato un trattamento.

 

Tuttavia, i pazienti sono molto eterogenei. Forse perché sono persone. Caratteristiche come demografia, personalità, storia di vita, competenze, supporto sociale e via dicendo variano ampiamente.

 

Secondo Kiesler, questo pregiudizio di uniformità limita le conclusioni che si possono trarre, poiché le differenze individuali non vengono adeguatamente considerate.

 

Ma non finisce qui.

 

Dell’assunzione di uniformità cade vittima anche il terapeuta. Nel suo caso, il mito suggerisce che tutti i terapeuti forniscano lo stesso tipo di intervento.

 

Tuttavia, differenze tra loro – anche qui in termini di esperienza, atteggiamenti, credenze, modalità interazionali, variabili di personalità ecc. – influenzano significativamente i risultati del trattamento.

 

I terapeuti non sono intercambiabili, e ciò ha profonde implicazioni sul disegno della ricerca e sull’efficacia del trattamento.

 

Kiesler sostenne che questi miti rappresentano un ostacolo allo sviluppo di paradigmi di ricerca efficaci.

Per superare tale impasse, suggerì che la ricerca in psicoterapia dovesse tener conto di queste differenze tra pazienti e terapeuti, adottando disegni sperimentali più sofisticati.

 

Da allora passi in avanti nei disegni di ricerca sono stati fatti, anche se il problema è tutt’altro che scomparso.

 

Ma mi colpisce soprattutto che il mito colpisca ancora molti clinici. E, beninteso, non penso sia principalmente responsabilità loro, ma di cosa viene loro insegnato e di cosa viene scritto nei libri.

 

Nel 2007 (41 anni dopo l’articolo di Kiesler), l’APA ha aggiornato la definizione di metodi evidence based per aggiungere il ruolo del clinico e della persona/paziente nel funzionamento della terapia.

 

Tuttavia la domanda “Come si lavora con ‘un’anoressica’?” mi sembra tutt’altro che scomparsa dai dialoghi tra terapeuti. E il più etico “Come si lavora con l’anoressia?” sposta di poco – o forse per niente – il problema di cui sto parlando. Anzi, linguisticamente misconosce ancora di più la persona.

 

Le categorie sono utili: colgono la ridondanza.

Ma sono concetti, mentre è bene tenere a mente che chi abbiamo di fronte è una persona.

 

Riferimenti:

Kiesler, D. J. (1966). Some myths of psychotherapy research and the search for a paradigm. Psychological Bulletin, 65(2), 110–136.

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