Modificare la terapia in base alle preferenze del paziente è sempre una buona idea, ma… NIENTE è SEMPRE una buona idea.
Nel loro “Personalizing Psychotherapy”, John Norcross e Mick Cooper individuano tre ambiti in cui è bene lasciare meno spazio alle preferenze del cliente e rimanere più fedele al tuo modello e assumere eventualmente più direttività all’interno della terapia.
Il primo ambito è quello della diagnosi.
Secondo alcuni studi, puntualmente riportati, quando ci si trova di fronte a fasi acute di psicosi, episodi maniacali, deliri o deterioramento cognitivo, personalizzare la terapia non è una buona idea. Viene facile capire che in queste situazioni, complesse e a rischio già di per sé, è bene attenersi strettamente a modalità consolidate di lavoro – quali siano, poi, è un’altra storia.
Sempre nell’ambito delle diagnosi, anche il Disturbo Dipendente di Personalità non vede di buon occhio l’adattamento alle richieste del paziente. E’ facile capire che se chiedi a qualcuno identificabile come “dipendente cronico”: “Come preferisci che sia la terapia?” probabilmente ti risponderà: “Come la preferisce lei, dottore”. Tuttavia, ci dicono Norcross e Cooper, con l’andare delle sedute è bene mollare un po’ di direttività per aiutare la persona ad essere più autonoma.
E sempre nell’ambito della diagnosi anche persone con intense oscillazioni relazionali o emotive non troverebbero giovamento dalla richiesta di personalizzazione. Troviamo in questo insieme persone con diagnosi di disturbo borderline, ciclotimia, bipolarismo a cicli rapidi. Meglio aspettare di raggiungere un po’ di stabilità, suggeriscono gli autori.
Il secondo ambito è quello culturale.
Ci sono persone che aderiscono a norme culturali in cui i ruoli sono molto importanti e nettamente definiti: i due autori parlano di culture in cui convenzioni “tradizionali” sono ancora molto vive e sentite, ad esempio con una preferenza di posizioni paternaliste in certi ambiti. Citano come esempio i pazienti Asio-americani, che si possono trovare a disagio con un terapeuta che lascia loro più spazio. Una soluzione potrebbe essere trovare dei modi adeguati per farlo, ad esempio chiedendogli di esprimere delle preferenze successivamente, attraverso delle email o dei messaggi, evitando così il confronto faccia-a-faccia.
L’ultimo ambito è quello in cui la personalizzazione è semplicemente… inapplicabile, o non essenziale.
Un esempio è quando gli obiettivi del trattamento dominano rispetto alle preferenze del trattamento: se la persona vuole liberarsi velocemente dagli attacchi di panico ed è prontamente disposta a seguire i metodi di quel terapeuta non è probabilmente utile chiederle se preferirebbe pensare a qualche altro metodo a lei più congeniale.
Un altro esempio è quando, semplicemente, il cliente non è molto in grado di nominare delle preferenze: insistere sarebbe dannoso.
In queste situazioni la cosa migliore da fare è attenersi a quanto si farebbe in modo standard e semmai indagare le preferenze rispetto ad altri aspetti del trattamento, come la durata o la frequenza delle sedute.
Adattare la terapia al paziente, chiedendogli quali sono le sue preferenze o quantomeno facendone oggetto di indagine delle sedute è un’idea saggia e utile, tanto che, come ho citato in più di un video, è stata aggiunta dall’APA nella definizione degli evidence based treatment. Tuttavia niente è valido sempre, quindi non scordiamo che prima di usare regole e modelli dovremmo sempre… preferire l’uso della testa.
Flavio Cannistrà
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