Riprendendo e riformulando quanto scritto in questo articolo, parliamo di Disturbi di Personalità.
Il concetto (non la diagnosi) di disturbo della personalità esiste da secoli, ma oggi necessita sia di un ripensamento che di un nuovo nome.
Cosa ti dice il termine “disturbo della personalità”?
Sulla base della parola “personalità” potresti naturalmente dedurre che un tale disturbo deve essere collegato al sé di qualcuno, alla sua identità, e persistere nel tempo, molto più che con altri problemi di salute mentale.
Il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5, 2013), definisce un disturbo di personalità come “un modello duraturo di esperienza e comportamento interiore”, in contrasto con ciò che ci si aspetta nella cultura di una persona, “pervasivo e inflessibile”, e che “conduce a disagio o menomazione”.
Ciò che accomuna tutte le categorie di Disturbo di Personalità, secondo i criteri formali, è la durata e la pervasività nella vita di una persona.
In un recente articolo, un gruppo di ricerca guidato dallo psicologo clinico Aidan Wright sostiene non solo che l’etichetta “disturbo di personalità” è inutile e stigmatizzante – immagina di apprendere di avere un disturbo che ha a che fare con una parte essenziale e duratura di te – ma è anche potenzialmente fuorviante, sia per chi riceve una diagnosi, sia per chi lo studia.
Il team pensa che sia giunto il momento che i professionisti della salute mentale adottino un nuovo nome e approccio.
Per cominciare, Wright e i suoi colleghi sostengono che la durata e la pervasività non distinguono necessariamente i disturbi della personalità da altri tipi di disturbi.
Wright fa notare che anche molti casi di disturbi psicotici, come la schizofrenia, “sono di lunga durata e compromettono le persone in tutti i domini”. Allo stesso modo, “anche molti casi di depressione sono duraturi”.
“Quasi tutti i disturbi possono mostrare periodi di durata davvero lunghi” aggiunge. Inoltre, la ricerca indica che, in molti casi, i sintomi del disturbo di personalità migliorano nel tempo anziché rimanere stabili indefinitamente. Si veda ad esempio il capitolo Clients: The Neglected Common Factor di Bohart e Tallman.
Forse più sorprendente è che, nonostante il loro nome, i disturbi della personalità non sembrano essere correlati in modo univoco alle differenze nei punteggi dei test di personalità.
La ricerca evidenziata dal team di Wright suggerisce che le persone che mostrano più sintomi di un disturbo di personalità tendono a ottenere punteggi più alti in nevroticismo e più bassi in coscienziosità nei famosi Big Five, ma non più delle persone che mostrano sintomi di altri disturbi psichiatrici, il che mina l’idea che la loro condizione sia distintamente un disturbo di personalità.
Se i tipi di problemi che oggi vengono etichettati come disturbi della personalità non sono generalmente più duraturi o più legati alle differenze di personalità rispetto ad altre condizioni di salute mentale, cosa li distingue?
La risposta, secondo Wright e colleghi, è la disfunzione interpersonale (essenzialmente, problematiche relative a se stessi e alle altre persone), che li porta a sostenere che i disturbi della personalità dovrebbero essere riformulati come “disturbi interpersonali”.
Tuttavia, a mio parere, come sopra questo è vero per tanti altri disturbi.
La paura di farsela addosso, per esempio, può creare forti e spesso gravi limitazioni a livello interpersonale, fino a limitare fortemente o addirittura impedire relazioni sociali, lavorative e sentimentali, arrivando ancor più specificatamente a poter minare le funzioni genitoriali o di coppia.
Lo stesso dicasi per problemi definiti come “agorafobia”, “anoressia”, “spettro autistico”, “impotenza” ecc.
Non è un caso che la Terapia Breve si interessa sempre e da sempre dei processi interpersonali.
Wright propone che, per qualcuno a cui è stato diagnosticato un disturbo di personalità, la disfunzione interpersonale è una causa più primaria dei problemi della persona rispetto ad altri disturbi. Ma mi sembra una tesi debole. “Più primaria” da quale punto di vista? E per quale fine dovremmo considerala tale?
Ad ogni modo, le etichette utilizzate per diagnosticare i disturbi sono più di un argomento di dibattito accademico o clinico; sono importanti per coloro che si trovano all’estremità ricevente.
Sostituire il termine “disturbo della personalità” non cancellerà la paura dell’abbandono, il comportamento passivo o di controllo o altri sintomi impegnativi di una persona.
Ma riformulare queste condizioni potrebbe, forse, migliorare il modo in cui le persone colpite vedono se stesse e il modo in cui le altre persone, compresi i professionisti della salute mentale, approcciano a loro.
Wright dice che alcuni clinici “lo usano come una sorta di termine ‘stornante’ – come un modo per dire, in pratica, che non vale la pena dedicare del tempo a cercare di andare lontano [con il paziente], perché la sua personalità” inficerà il lavoro. In questi casi, sostiene, il termine è usato “per incolpare la persona per i suoi problemi”.
Da parte loro, alcune persone che ricevono una diagnosi di disturbo di personalità sono spesso felici di avere un nome per la loro esperienza, dice Wright. Ma ci sono alcuni che hanno incontrato l’uso più sprezzante del termine, che “capiscono che è peggiorativo e non gli piace”.
Gli sforzi per riconcettualizzare i disturbi mentali più in generale (ad esempio, come spettri di difficoltà psicologica, piuttosto che categorie discrete di disturbi) hanno guadagnato una certa trazione tra i ricercatori clinici negli ultimi anni.
In un breve articolo pubblicato nel 2022 sul “miglioramento della denominazione dei disturbi psichiatrici”, lo psichiatra Bruce M. Cohen e colleghi hanno lanciato allo stesso modo l’idea di sostituire il “disturbo della personalità” con “disturbo relazionale” o “difficoltà relazionale”.
Piuttosto che apprendere di avere un particolare “disturbo della personalità”, un paziente potrebbe apprendere di avere una forma di “disturbo interpersonale” che è la chiave per comprendere i propri problemi.
“Se tu fossi il paziente, quale messaggio preferiresti ricevere?”, si domanda l’autore dell’articolo.
Personalmente sono poco incline a usare anche questa locuzione “hai un disturbo interpersonale”.
Sia per via del termine “disturbo”, che oggi è fortemente medicalizzato (quindi rimanda all’idea di avere qualcosa di simile a una malattia) e che, inoltre, rimanda anche all’idea che ci sia un “turbamento” rispetto a un funzionamento “normale”.
Sia per via del verbo “avere”, che è molto più appropriato quando parli di una malattia che prevede la presenza di un “testimone invisibile” (come un virus, o una cellula malata), che non quando si parla di qualcosa di molto più legato al “fare” o al “credere/significare” (che è comunque un’azione, per quanto automatica e inconsapevole).
Riflessioni finali: ripensate i vostri contenuti Instagram perché presto, spero, non parleremo più di “disturbi di personalità”.
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