Questo è un tema di vitale importanza non solo per gli psicoterapeuti, ma anche per medici, consulenti, coach sportivi e persino insegnanti e genitori. Perché? Tutte queste, e altre, figure hanno una cosa in comune: una particolare forma di relazione con un’altra persona. Il terapeuta e il medico con il proprio assistito, il consulente con il cliente, il coach con l’atleta e insegnanti e genitori con ragazzi e bambini. E cosa c’entra? Questa particolare forma di relazione è fondamentale per una collaborazione tra i due. Se pensi che il tuo ruolo basti a far sì che l’altro esegua ciò che vuoi, anche se è nei suoi interessi… sei fuori rotta. Non solo! Persino se l’altra persona fosse completamente consapevole che ciò che stai facendo – anzi, che state facendo insieme – è per il suo bene, ciò non significa che lo eseguirebbe. Gli psicologi lo sanno bene. Forse più di chiunque altro abbiamo studiato proprio questa particolare forma di relazione. Noi la chiamiamo “relazione terapeutica”, perché ovviamente quello che facciamo è terapia, ma si può chiamare genericamente “relazione di lavoro”: è il tipo di relazione che si instaura tra due persone per aiutare una delle due a raggiungere un determinato obiettivo. Quindi, anche quando parliamo di genitori, non stiamo parlando della relazione quotidiana coi figli: stiamo parlando di quelle situazioni in cui tale relazione è finalizzata a far raggiungere un particolare obiettivo al figlio. E perché è così importante? Perché, come detto, se pensi che solo perché una persona che si rivolge a te per un aiuto farai quello che le suggerisci… stai fresco. Perché? Beh, in linea generale per un motivo molto semplice che pure un nome: omeostasi. Tutte le persone (e gli esseri viventi) tendono a mantenere lo status quo. C’è pure un proverbio che spiega questa cosa: chi lascia la strada vecchia per quella nuova, sa cosa perde ma non sa cosa trova. Che un inno all’immobilismo, alla staticità e al rimanere nella propria zona di comfort! Come esseri viventi tendiamo a voler sprecare meno risorse possibili e a mantenere lo stato in cui stiamo, anche se questo stato è sofferente e doloroso! Uno potrebbe pensare che se una persona soffre, quello che vuole fare di sicuro è… smettere di soffrire! Sì, certo che sì! Però questo desiderio si scontra col più radicato bisogno di mantenere le cose così come stanno, di avere quel controllo che ti permette di essere, di sentirti più o meno al sicuro. O, se vogliamo, con il timore che lo sforzo, l’energia, il tempo le risorse necessarie per questo cambiamento vadano al di là delle nostre capacità e cambino la situazione in un modo incontrollabile e inaspettato. O, ancora, che ciò che ci aspetta al di là del cambiamento sia semplicemente “troppo”. D’altronde quanti di noi hanno provato a cambiare in certe situazioni senza riuscirci? Non riuscire a cambiare dieta perché non ci piace il nostro peso. Non riuscire a cambiare partner perché non stiamo più bene in quella relazione. Non riuscire a cambiare psicologo perché non vediamo miglioramenti significativi! Eppure, se bastasse dire: “Ora cambio” per poter cambiare, sarebbe tutto semplice. Peggio ancora dal nostro punto di vista di psicologi: se per cambiare bastasse dire: “adesso fai questo, questo e quello”…sarebbe il lavoro più semplice del mondo. Invece, quello che succede, è che quando suggeriamo all’altro cosa deve fare per stare meglio… spesso non lo fa, o lo fa a modo suo. In psicoterapia parliamo proprio di “resistenza al cambiamento” per definire questo paradossale comportamento. E come si vince la resistenza al cambiamento? In tanti modi, in realtà. Ma uno di questi, il più basilare probabilmente, è chiaro: devi curare la relazione “terapeutica” tra te e il cliente. Ed è di questo che parlerò nelle prossime settimane.
Flavio Cannistrà
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