Un uomo entrò nello studio di Milton Erickson, con uno dei più gravi problemi che si possa avere: l’alcolismo. Parlò della sua vita, della sua famiglia, della sua figlia piccola, e di come l’alcolismo stesse distruggendo tutto. I suoi genitori erano alcolisti, sua moglie era alcolista e lui stesso aveva avuto undici volte il delirium tremens. Più volte aveva provato a smettere, ma senza successo: non si riteneva in grado di farcela e ogni volta cadeva in quel problema sempre di più, sempre più a fondo. Dava colpa a se stesso, ma anche all’ambiente lavorativo in cui stava e alle amicizie che frequentava: tutto sembrava remare contro di lui e rendergli impossibile uscirne. Erickson lo ascoltò con attenzione, poi gli diede un ordine. L’uomo lo guardò sorpreso, uscì e da quel giorno non bevve più. Molti anni dopo una donna andò da Erickson: “Voglio vedere che razza di persona è lei” gli disse. Erickson la invitò ad accomodarsi e a dare “una bella occhiata” e le chiese perchè voleva sapere che persona era lui. “Perché molti anni fa lei disse a mio padre di andare al Giardino Botanico a guardare i cactus. E da quel giorno lui non ha più bevuto.” L’ordine di Erickson fu proprio quello: andare al Giardino Botanico, guardare i cactus e riflettere che sono in grado di sopravvivere tre anni senza bere. E’ uno dei casi più noti di Erickson, per via della sua spettacolarità e incredibilità: si può davvero far smettere di bere in un modo talmente assurdo? Ma che vuol dire “assurdo”? Significa letteralmente che è incomprensibile. ma può essere compreso. A quell’uomo Erickson diede una suggestione dall’alto valore simbolico. L’uomo sembra che fosse altamente motivato a smettere di bere: era a un punto di rottura con il problema, ma credeva di non avere la possibilità di farcela. Erickson cavalcò esattamente questa sua forte motivazione a smettere e ci incastrò all’interno una suggestione potente: è possibile rimanere senza bere per lungo tempo. Una volta mi chiamò al telefono una persona disperata, in lacrime: era a casa con il figlio e con due amichetti, ed era totalmente ubriaca. Era disperata per il fatto che continuava a bere, non riusciva a smettere, ma sapeva che questo avrebbe portato alla distruzione della sua vita e a togliergli il figlio. Tra le lacrime mi chiese di aiutarla e io, con voluto rigore, le dissi che l’avrei aiutata, ma che doveva essere consapevole di una cosa: solo lei poteva tirarsi fuori da lì. Le chiesi se ne fosse consapevole, e disse sì. Le chiesi se volesse davvero mettersi in gioco fino in fondo, e disse sì. Le chiesi se avrebbe fatto tutto ciò che le avrei chiesto di fare, e mi disse sì. Allora le dissi che non le davo un appuntamento: se veramente ne voleva uno, se veramente voleva essere aiutata, se veramente voleva smettere di bere, allora avrebbe dovuto scrivere alla mia assistente per prendere l’appuntamento e si sarebbe dovuta presentare il giorno fissato. Solo allora l’avrei aiutata. Due settimane dopo vidi quella persona. Sobria. Mi disse che erano due settimane che non beveva e facemmo un’intensa seduta rivolta a ciò che era riuscita a fare e ciò che voleva continuare a fare. Alla fine dell’incontro mi disse che sentiva di voler continuare da sola. Riconobbi le sue risorse, e la salutai. La risentii dopo due settimane, e mi disse che erano trenta giorni che non beveva. Dopo quasi sei mesi ebbi un ulteriore contatto, dove mi disse che le cose procedevano bene e dopo quasi un anno e mezzo da quella seduta le chiesi come andavano le cose, mi disse che andavano bene e che grazie a suo figlio riusciva a mantenersi sobria. La suggestione indiretta non è la panacea per tutti i mali, ma sicuramente è una freccia che ogni terapeuta dovrebbe saper incoccare al proprio arco.
Flavio Cannistrà
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