Che cosa può fare uno psicologo che lavora con un disturbo evitante di personalità? Questa domanda mi è stata fatta da alcuni psicologi, e non solo, e per me è veramente difficile poter rispondere. Perché, per come la vedo io, parlare di lavorare con un disturbo evitante di personalità è un problema mal posto.
Il DEP (Disturbo Evitante di Personalità), è una categoria diagnostica: non una cosa in sé. Ritengo profondamente errato pensare che,
anche se io dovessi porre la diagnosi di DEP, questo significa che io poi sappia cosa fare. Ovviamente ci sono i libri, le pratiche, persino questo video andrà in quella direzione. Ma il punto deve essere quello di abbandonare
un linguaggio, un atteggiamento che si pone nel senso di “cosa posso fare con il DEP”, per adottarne uno che vada a identificare delle cose concrete, operazionalizzabili su cui lavorare. E così, magari, potreste chiedermi
che cosa fare con una persona che vive un forte senso di inadeguatezza e che, magari, si percepisce meno degli altri.
Sono vago volutamente e non vado troppo nel dettaglio, però di fronte a questo un tentativo generico, e quindi non generalizzabile, potrebbe essere quello di mettere alla prova la percezione di sé: se ci pensi questo lo puoi fare in tanti modi ed è molto più semplice. Se usi una prospettiva della Terapia Strategica, per esempio, potresti chiedere alla persona di fare una lista di tutte le cose che gli fanno dire che è inadeguato, farla la mattina e poi metterla alla prova durante la giornata per vedere se effettivamente mette in atto quei comportamenti o quegli atteggiamenti. Da una prospettiva della Terapia Breve Centrata sulla Soluzione, invece, la direzione sarebbe completamente opposta: le chiederesti di notare tutte le cose che funzionano, e in particolare quelle che le dicono di essere una persona adeguata, anche le più minimali. Se poi il problema su cui focalizzarci è l’evitamento delle relazioni, anche qui poi cercando di capire se sono quelle sentimentali, lavorative o sociali in generale, la strada da percorrere è un’altra ancora. Per esempio seguendo la cornice operativa delle nove logiche, su cui ho pubblicato un articolo recentemente nel Journal of Systemic Therapies, potremmo seguire la logica dei piccoli cambiamenti: ad esempio chiedendo alla persona di mettere, ogni giorno, in atto una piccola transazione interazionale, un piccolo comportamento sociale quotidiano, un sorriso, un’opinione, un gesto, qualcosa di semplice.
Anche qui però, come vedi, la grande differenza non la fa il disturbo evitante di personalità: la fa la persona. C’è chi accetterà di buon grado di fare questo tipo di gesti e di interazioni, e chi invece si rifiuterà categoricamente, chi troverà difficilissimo anche solo abbozzare un sorriso, e chi invece riuscirà a fare molto più di quanto immaginava, fino a chi avrà bisogno prima di tutto di passare un periodo ad immaginare che tipo di comportamenti mettere in atto prima di sperare di riuscire a farli. Insomma diventa persino tutto più facile se, anziché trattare la diagnosi, ti concentri su ciò che ti porta la persona che hai di fronte o, se vogliamo dirla in altri termini, se anziché trattare il problema…
…ti focalizzi sulla persona
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