Sappiamo due cose:
Uno, l’alleanza terapeutica è un fortissimo predittore del successo o dell’insuccesso di una terapia, quindi se non c’è alleanza è molto probabile che la terapia andrà male.
Due, una buona alleanza terapeutica si ottiene se il paziente condivide i mezzi e i metodi che utilizzi, quindi se fai terapia in un modo che al tuo paziente non garba è molto probabile che la terapia andrà male.
Questa è una cosa importante su cui rifletto da molto tempo. L’altro giorno stavo vedendo una persona con agorafobia e stavo applicando la Terapia Breve Centrata sulla Soluzione, che è uno dei quattro modelli che insegniamo nella nostra Scuola di Specializzazione in Psicoterapie Brevi Sistemico Strategiche. Devo dire che la Terapia Breve Centrata sulla Soluzione è uno dei metodi che preferisco: è efficace, è efficiente e l’ho usata con grande successo con problematiche anche molto complesse come psicosi o disturbi borderline di personalità, insomma mi piace. Tuttavia, andando avanti in quella seduta, mi rendo conto che la persona voleva qualcosa. Cioè voleva proprio qualcosa: una tecnica, una strategia, qualcosa da fare.
La Terapia Breve Centrata sulla Soluzione devi sapere che è un approccio prettamente dialogico, basato sulle domande all’interno del colloquio. È un approccio straordinario, lo ripeto, però decisamente non è basato sulle tecniche, sui compiti da dare a casa tra una seduta e l’altra. Il cambiamento lo produce anche rapidamente, anche molto più rapidamente di altre Terapie Brevi in molti casi, ma attraverso il colloquio. Ma che fare se la persona davanti a te capisci che vuole una tecnica? Nei suoi studi Bruce Wampold, che ogni tanto cito, ha sottolineato il fatto che il risultato, l’efficacia di una psicoterapia è dovuta spesso anche all’idea da parte del cliente di star facendo qualcosa, di essere attivo nel processo di cambiamento.
Se non ricordo male ne ho parlato anche nel mio video “Fattori comuni in psicoterapia: a che punto siamo”. Devo dire che a molte persone basta la seduta e il colloquio in sé per avere l’idea di star facendo qualcosa, ad altre però no. Altri hanno bisogno della tecnica, hanno bisogno di sentirsi agenti attivi del cambiamento anche, e soprattutto, al di fuori della seduta. Possiamo aggrapparci a spiegazioni teoriche che ravvedano in questo comportamento una resistenza o una debolezza, però per me è solo un modo, dare questa spiegazione è solo un modo di buttare fuori dalla porta un fatto per vederlo poi rientrare dalla finestra. E, soprattutto, spiegare la cosa in questi termini significa non risolverla, anzi significa dare la colpa, la responsabilità quantomeno al paziente, al cliente e non assumersela per poter cambiare in qualche modo le cose.
E, se ragionassimo diversamente?
Come insegno nella mia scuola seguendo la flessibilità, e non il rigido rigore metodologico, ho fatto delle piccole variazioni all’interno della seduta: in pratica le ho suggerito delle tecniche da applicare al di fuori della seduta stessa, e
quando l’ho fatto le si sono illuminati gli occhi. Ha proprio detto che era quello di cui aveva bisogno, che sentiva di aver bisogno delle tecniche concrete da applicare quando ci saremmo detti “ci vediamo alla prossima”. Da un lato potrei dire che la Terapia Breve Centrata sulla Soluzione, che ripeto adoro, avrebbe funzionato lo stesso anche senza l’applicazione di quelle tecniche, ma dall’altro aggiungerei che la Terapia, al di là del modello che stavo usando, poteva non funzionare perché la persona avrebbe avuto la percezione che mancava qualcosa, che c’era qualcosa di cui aveva bisogno che io non le stavo dando. Questo è anche il motivo per cui nella scuola di specializzazione insegniamo quattro modelli: perché così calzi il modello giusto alla persona, non al disturbo, alla persona che hai di fronte. Insomma, morale della favola, impara un metodo, ma impara anche ad adattarti, perché se non ti adatti tu…
…se ne va il cliente.
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