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Perché la psicoterapia funziona? Fin dall’articolo del 1936 di Rosenzweig è stata  data una spiegazione che tutti conoscete: perché ci sono dei fattori, terapeutici, comuni a tutte le terapie.

Poi hanno detto di no, poi di nuovo di si, poi di nuovo di no, e ora, negli ultimi vent’anni, sta tornando con forza il sì.

Ma a che punto siamo rispetto a questa storia dei fattori comuni, e, soprattutto, a noi che ci interessa nell’ambito delle terapie brevi?

Mega sintesi:

1) diverse meta-analisi stanno supportando l’idea dei fattori comuni. In particolare i fattori comuni principali dal più importante al meno importante sono le caratteristiche e le risorse del
cliente, la relazione terapeutica, l’aspettativa di cliente e terapeuta che la terapia  possa produrre degli effetti terapeutici e, a pari merito in realtà, il Modello Terapeutico.In realtà studi diversi hanno dato più o meno importanza a questi fattori e anche ad altri, ma diciamo che in linea di massima questi in quest’ordine sono i più accreditati

2) Emerge con più vigore il  cosiddetto “Modello Contestuale”. Questo modello è molto interessante e, anzi, in realtà temo di storpiarlo in questa sintesi, quindi se lo vuoi approfondire vatti a leggere “Il grande dibattito in psicoterapia” di Wampold e Imel che cito tante volte, è un libro noiosissimo ma molto, molto, molto interessante. La prima cosa che devi sapere è che il
Modello Contestuale si oppone al cosiddetto Modello Medico: il Modello Medico identifica delle malattie specifiche per le quali ci sono delle specifiche cure, concepisce che, così come in medicina per la febbre usi la tachipirina o per un tumore usi la chemioterapia, in psicoterapia per disturbi specifici ci sono delle specifiche cure.

Ovviamente ho semplificato perché sappiamo che anche in medicina puoi utilizzare più specifiche cure per lo stesso problema, però abbiamo reso l’idea. In particolare lo puoi capire meglio considerando che il Modello Contestuale, invece, dice che la risoluzione di problemi specifici in psicoterapia non avviene per via di trattamenti specifici.

Quindi il problema X non ha una soluzione Y che calza specificatamente su quel problema e che per altri problemi non andrebbe bene, no, la soluzione avviene, invece, per via di tre possibili strade.

La prima è la relazione reale tra il cliente e il terapeuta. Io vorrei che finalmente si smettesse di dare poteri taumaturgici a una presupposta relazione terapeutica che non si sa come possa curare le persone e che si dia, invece, più importanza a una definizione precisa ed operativa della vera relazione che c’è tra il terapeuta e il paziente. In soldoni l’esperienza di una relazione vissuta come confidenziale, cioè dove puoi dire tutto, e non giudicante, cioè dove vuoi dire tutto tutto, fa sì che la persona viva una persona di fronte a lei, cioè il terapeuta, come sicura, come piacevole, come rassicurante, e questo la porterà a parlare dei propri problemi.

E tu capisci che già parlare dei propri problemi, farlo poi in un certo modo, permette alla persona di fare un passo in più per andare a risolverli.

C’è poi la strada delle aspettative, molto intrigante: sì perché la ricerca sembra mostrare che ciò che importa è il significato che la persona dà al problema e alla sua soluzione. Anche qui, in soldoni, se la persona ritiene plausibile il perché il problema si sia generato, quindi la spiegazione del problema, e il come si possa risolvere,  allora avrà buone possibilità di risolverlo.

Pensa che quelle implicazioni,  non importa la causa reale, semmai sia possibile identificarne una, non importa neanche la reale spiegazione del funzionamento della soluzione, importa che il terapeuta, e il cliente in particolare, lo ritenga plausibile. Questo è essenzialmente diverso dal Modello Medico, che invece ritiene che il problema abbia delle caratteristiche in
sé, nella sua essenza, per le quali, o meglio sulle quali, bisogna andare ad agire con degli strumenti che sono specifici pensati esattamente per quelle caratteristiche.

E la terza strada è quella legata alla percezione di “star facendo qualcosa”. Ecco spiegato perché compiti possono funzionare, o anche può funzionare il semplice fatto di andare in seduta,
perché secondo il Modello Contestuale è la sensazione, la percezione di star facendo qualcosa che produce risultati. Niente di nuovo anche qui in fin dei conti,  già con l’effetto placebo, se ci pensi, il sapere di star ricevendo una cura produce degli effetti terapeutici, oppure, proprio nella nostra professione, avrai avuto l’esperienza con dei pazienti che sono venuti alla prima seduta e avevano già portato dei miglioramenti proprio per l’idea che stavano facendo qualcosa, avevano finalmente iniziato ad affrontare il proprio problema.

Ci sono tante altre implicazioni da fare su questo per i quali vi rimando agli scritti di autori come Wampold, appunto, oppure come Lambert, che sono tra i due autori più importanti sul campo. Però la domanda adesso è questa: nell’ambito delle Terapie Brevi questo come ci interessa?

Innanzitutto faccio una premessa: non sono convintissimo della totale validità di questo modello, che pure ritengo interessante, su un certo tipo di paradigma come quello di molte Terapie
Brevi, un paradigma, una “prospettiva interazionale” per dirla alla Watzlawick e Wickland, da un libro che porta proprio questo tipo di titolo, però, detto questo, come ho scritto in un capitolo che uscirà sul prossimo libro di Hoyt e colleghi sulla Terapia a Seduta Singola c’è un elemento fondamentale da considerare che è il mindset.

Ne parlerò meglio in futuro, ma il succo è che il Modello Contestuale sembra spiegare ancora meglio il ruolo del mindset del terapeuta in particolare la lunghezza o la brevità di una terapia. Come detto, infatti, uno dei motivi per cui la terapia può funzionare è che il terapeuta e il cliente credano al perché, e soprattutto al come, un problema possa essere risolto, al perché si è sviluppato, al come la soluzione funzioni. Va da sé che se entrambi ritengono, e a maggior ragione se il terapeuta convince esplicitamente, o anche implicitamente, il cliente che il problema è legato ad antichi traumi profondi, a dei condizionamenti cristallizzati nel tempo, o a delle immodificabili disfunzioni neurologiche, la terapia sarà necessariamente lunga, perché la cura verrà intesa come qualcosa che deve essere lungo e tortuoso, e alla fine sarà veramente così.

E allora fare Terapia Breve significa, una volta di più, mettersi proprio nel mindset adatto per far sì che la terapia sia di breve durata, un mindset che prevede, e ancor prima che ritiene possibile, che problemi anche invalidanti si possano risolvere in tempi brevi.

Partire da questo mindset significa che il messaggio che trasferiamo al nostro cliente è proprio questo: ce la possiamo fare in tempi brevi, è possibile a prescindere dalle cause e grazie alle soluzioni che adottiamo. Non ritengo che quella del Modello Contestuale sia la spiegazione ultima e definitiva, ma di certo dà una ulteriore spiegazione al fatto, un ulteriore sostegno al fatto che per fare una Terapia Breve…

…serve un “terapeuta breve”.

 

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