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Le neuroscienze sono preziose: ci stanno aiutando, infatti, a capire meglio certi comportamenti, e a dare ancora più sostanza a certe teorie.

Eppure ci sono dei rischi nel salutarle con quell’atteggiamento di devozione mistica che si ha verso nuove branche della scienza, o nuove tecniche, o nuove tecnologie.

Tempo fa leggevo questo bel librettino di Kenneth Gergen “Costruzione sociale e pratiche terapeutiche”. Lui è un professore emerito dello Swarthmore College della Pennsylvania, che ho intervistato, peraltro, pochi mesi fa, trovi il suo video sul costruzionismo sociale.

Nel libro dice delle cose interessanti rispetto ai rischi del riduzionismo scientifico nell’ambito delle neuroscienze. In questo video non potrò veramente scendere nel dettaglio, però mi fa piacere poter condividere un po’ di idee e magari poi sapere che cosa ne pensi.

Partiamo da un metodo alla base del lavoro neuroscientifico: il brain scanning.

Oggi viene usato sempre più per associare a determinate malattie determinate configurazioni neurobiologiche e poi, da li, sviluppare dei trattamenti da erogare nel momento in cui si abbia quella determinata configurazione.

E già questo, secondo Gergen, pone un rischio a cui dobbiamo prestare attenzione: dato che l’investimento sulla sanità è spesso ragionato sui costi, sulle spese, perché è una delle spese più grandi sopportata da qualunque stato, il rischio che si vada ad utilizzare sempre di più prevalentemente il farmaco è forte.

È forte perché il farmaco, indubbiamente, rispetto alla psicoterapia, nel breve tempo può essere più vantaggioso economicamente parlando.

In realtà il fatto che si spenda di più per i farmaci non è un rischio, è una realtà, secondo Gergen. Pensa che nel 1970 negli USA vennero trattati circa 150 mila casi con i farmaci.

150 mila casi di “disturbo mentale” trent’anni dopo, nel 2000, erano tra i 9 ed i 10 milioni.

Ecco che i farmaci diventano sempre di più, anche qui da noi, la “risposta standard” per la “terapia di cosa non va nel comportamento”. La svolta neurobiologica, secondo Gergen, aumenta il rischio della dipendenza da “il farmaco come cura migliore”, peraltro, aggiungo io, nonostante una crescente schiera di articoli e di ricerche che mostrano il contrario.

Guarda, per esempio, l’intervista che ho fatto a Roberta Milanese e il libro che ha scritto su questo argomento “Psicopillole”.

Ma il problema principale è che rischiamo di perderci la “cultura”, cioè l’aspetto sistemico culturale che sta alla base di questi problemi. Per esempio, se dovessimo attenerci strettamente al DSM-5, se tu immagini un bambino di 6 anni che ha perso da sei mesi la mamma, e che manifesta tutta una serie di comportamenti che rientrano all’interno della categoria “lutto”, ecco è “affetto” da una malattia mentale.

Peraltro notate come le parole creano la realtà: diciamo “è affetto da una malattia mentale”, da un disturbo psicologico, allo stesso modo in cui diciamo “è affetto da una malattia organica”.

Non pensate anche voi che dovremmo usare parole diverse per riferirci a delle categorie di problemi: quelli psicologici e razionali da un lato, e quelli organici dall’altro, che sono per l’appunto molto diverse tra loro?

Torniamo al lutto, però, ovviamente lo psicodiagnosta attento dirà che noi non usiamo soltanto il DSM per porre una diagnosi, si usano altri strumenti, si fa una valutazione più approfondita, si usa il colloquio clinico.

E tuttavia lo psicologo sociale aggiungerà che queste procedure non ci tutelano dal rischio, tutt’altro che remoto, di una ipersemplificazione della realtà osservata e da una costruzione di nuove realtà cliniche.

Tornando a Gergen e al rischio del riduzionismo neurobiologico, l’autore evidenzia che effettivamente, poi, molti dei nostri problemi sono di origine sociale o fortemente legati
all’aspetto sociale e culturale. Basta pensare, un caso su tutti, a disturbi alimentari nelle popolazioni asiatiche, come quello di Pike e Dunne del 2015 pubblicato nel Journal of Eating Disorders, che mostra proprio che molti di questi problemi sono frutto di una occidentalizzazione di quei paesi.

Gergen dice che, proprio il fatto che molte malattie mentali sono totalmente assenti, o fortemente diverse in diversi contesti, contraddica il modello biologico delle malattie mentali. Io aggiungo che questo non vuol dire che non c’è un correlato biologico, ma che bisogna definire che cosa si intende esattamente per correlato biologico, e cosa questo implichi o non implichi per la terapia.

Ad esempio Gergen sottolinea come negli USA si ha una probabilità tripla di ricevere la diagnosi di disturbo mentale se si appartiene a una fascia socio economica più bassa.

Un critico disattento direbbe che questa è una prova che i disturbi mentali non hanno un’origine biologica; ma un neurologo attento direbbe che infatti non si parla di origine biologica, salvo fatti casi, o comunque di causa biologica, ma di un mix delle due.

Un mix che porta a far sì che, per esempio, un certo contesto slatentizzi, o predisponga, o favorisca l’insorgere di una problematica con forti origini per l’appunto biologiche: i famosi fattori di rischio che abbiamo studiato tutti all’università.

In questo discorso lo psicoterapeuta attento dirà che è proprio qui che si inserisce l’osservazione per la quale non bisogna pensare che la neurobiologia sia la spiegazione ultima o migliore. Gergen fa l’esempio del bambino con ADHD, sostenendo il fatto che l’eccessiva enfasi sull’aspetto biologico fa perdere, rischia di far perdere, tutto il contesto.

Addirittura potrebbe farci dimenticare di chiederci se un’attenzione predisposta più verso gli stili di accudimento o di insegnamento non sia un intervento migliore o un mindset migliore che non quello di considerarla una malattia di origine neurologica.

Nota: io lo so che siamo tutti professionisti attenti, ma ci sono altri che in realtà non lo sono e che rischiano, con le migliori intenzioni, di limitarsi ad applicare pedissequamente il manuale. E, badate bene, questo non è un errore se ci viene insegnato a fare così.

 

E insomma tra i limiti delle neuroscienze ce ne sono, secondo Gergen, innanzitutto di metodologici:

iper semplificando viene chiesto al soggetto di compiere una determinata azione e viene misurata la sua attività neurochimica corrispondente. Ma un limite di questo approccio è legato all’inferenza. Immagina di vedere una persona con mancanza di sonno, inappetenza e tristezza. A quel punto dici che è depressa, fai lo scan e confermi che è depressa: infatti quella configurazione neurochimica è la configurazione della depressione. Ma questa è un inferenza, potresti dire che quella non è la configurazione della depressione è la configurazione di chi ha mancanza di sonno, inappetenza e tristezza.

Dicendo che è la configurazione della depressione, stai solo spostando la spiegazione a un livello logico di interpretazione o di categorizzazione differente. In più, mentre è piuttosto facile correlare un movimento del corpo ad un’attività neuronale precisa, è molto meno facile correlarvi uno stato d’animo o un’emozione: dire che l’attività neuronale X corrisponde alla “rabbia”, alla “depressione”, alla “gioia”, alla “tristezza”, significa, prima di tutto, aver dato una definizione universalmente condivisa di cosa è rabbia, depressione, gioia o tristezza. Ma sappiamo benissimo che queste parole identificano dei significati che possono essere anche molto diversi tra loro a seconda del vocabolario, della cultura, del periodo storico o del sistema diagnostico di riferimento.

So che questo video riceverà molte critiche, qualcuno penserà, erroneamente, che io non tenga in considerazione delle grandissime scoperte neuroscientifiche, del grandissimo apporto pragmatico che le neuroscienze hanno dato, oppure che sia uno di quegli psicologi che non riesce a vedere al di là del naso della psicologia.

In realtà è proprio il contrario, è proprio per non rimanere incastrati nel proprio modello di spiegazione della realtà e del mondo che dobbiamo iniziare…

…a usare il cervello.

 

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