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È incredibile come a volte è tutta una questione di definizione:

viene da me una giovane ragazza, appena maggiorenne,

che mi dice di “Avere i pensieri come un geyser”.

Per fortuna, nel mio percorso di formazione, una delle domande più importanti che ho imparato a formulare è:

“Che significa?”.

Inizio così a farmi descrivere pian piano cosa vuol dire “avere i pensieri come un geyser”,

andando sempre più nel concreto, fino a capire, insieme a lei, che tutti i giorni, tutto il giorno,

rimugina su qualunque cosa, pensa attivamente a tutto, in modo disordinato, saltando da un pensiero all’altro.

A quel punto le chiedo:

“Quindi, se ho capito bene, il problema che ti causa sofferenza, e per il quale sei qui,

è il fatto che pensi tutti i giorni in modo caotico, senza sosta, saltando di pensiero in pensiero” e così via…

Quando lei risponde “Sì” capisco che, da quel momento, abbiamo qualcosa su cui lavorare,

che non dipende dalla mia interpretazione, ma da una sua descrizione.

E’ parere di molti terapeuti brevi che una delle cose che aiuta a velocizzare la risoluzione di un problema

è proprio la definizione del problema stesso.

Ora, questo può sembrare scontato, giustamente qualcuno dirà che magari è l’ABC,

ma in realtà non è così scontato come sembra e,

soprattutto, non è sempre chiaro “come” definire il problema.

Tolto il fatto che questa non è una prerogativa di tutti gli approcci di Terapia Breve,

perché ad esempio nella Terapia Centrata sulla Soluzione

di norma non si va proprio a definire il problema,

sebbene non è che questa sia una parte sempre e del tutto esclusa.

Tolto questo, dicevo, un punto chiave da capire è che il modo in cui definirai il problema

potrà in buona parte determinare la lunghezza o la brevità dell’intervento.

Questo è un aspetto che non va trascurato, perché è il “segreto”, per così dire,

di ciò che rende “breve” una Terapia Breve.

Prendi ad esempio una definizione del problema

che si rifaccia esclusivamente

a una categoria diagnostica di un tradizionale sistema nosografico, come il DSM.

Il fatto di definire il problema come “Disturbo Bipolare di Tipo 1” o “Disturbo da Stress Post-Traumatico”

ha almeno 3 implicazioni:

da un lato stai semplicemente dando un’etichetta a una serie di comportamenti e percezioni della persona,

che può essere utile per andarti a ricordare cosa dicono i tuoi testi su quell’etichetta;

però ti devi anche ricordare che la critica principale fatta a questi sistemi è che l’etichetta, in sé,

non ti sta dicendo nulla sulla soluzione del problema;

da un altro lato, rischi che l’etichetta ti faccia cadere in una trappola autoreferenziale,

che ti porta a cercare o anche solo a evidenziare tutto ciò che conferma l’etichetta stessa,

e magari a trascurare il resto, o a guardare la persona con “le lenti dell’etichetta”;

e, da un altro lato ancora, l’etichetta porta in sé una serie di significati “altri”,

stratificati l’uno sull’altro, di cui magari potresti non essere del tutto consapevole,

come ad esempio il fatto che

Un paziente ”paranoico” è per sua stessa “natura” ”resistente”, qualunque cosa voglia dire,

o che “Per trattare “”un’ossessivo”” ci vogliono necessariamente molte sedute e l’ausilio dei farmaci”,

cose che non sono dentro il problema in sè.

In pratica, rischiamo di finire per vedere l’etichetta e non la persona,

oppure, peggio, rischiamo di trattare la diagnosi anziché aiutare la persona.

Però, a questo punto, la domanda è :

” Ma che devo chiedere alla persona per definire il problema

in modi che mi permettano di abbreviare la terapia?”

Ovviamente molto dipenderà dall’epistemologia di riferimento,

però penso che una prima pratica utile sia quella di arrivare a una definizione “operativa”.

Che significa? Significa una definizione che ti permetta di capire le operazioni che compongono il problema,

cioè che cosa fa la persona per via del problema, a causa di esso, come risposta ad esso, eccettera.

Prendiamo l’esempio della ragazza di prima: il suo “geyser di pensieri” era, in termini operativi,

il fatto di “pensare costantemente e in modo disordinato a ogni cosa”.

Vedi che già così diventa più facile avere di fronte una serie di possibili soluzioni,

perché è molto probabile che fermando o modificando quel “pensare”,

che è un’azione, quindi un comportamento “mentale”, in questo caso,

il problema stesso andrà ad essere modificato.

In casi simili, ad esempio, quello che potrei andare a chiedere

è il fatto di scrivere i pensieri, anziché pensarli, facendolo nel modo più ordinato possibile,

cosa che spesso dà tregua alla persona e che comincia a rendere più ordinato quel comportamento caotico.

Ovviamente tutto questo discorso vale lo stesso anche se la persona arriva con una definizione a priori,

come “sono depresso” o “ho un disturbo ossessivo-compulsivo” e così via:

non mi fermo all’etichetta che mi porta,

ma cerco di capire, in termini operativi, cosa significa per lei, che cosa fa,

che lei attribuisce all’essere depressa, ossessiva, e così via.

Di base, per avere delle linee guida pragmatiche,

quello che puoi fare per definire in termini operativi il problema,

è seguire le 4 W,

what, where, when, who.

Cioé cosa fai, dove lo fai, quando lo fai e chi, eventualmente, è coinvolto.

A questo punto ti rendi conto e ti viene più facile

sia identificare il funzionamento del problema, sia magari cominciare a proporre dei cambiamenti,

ad esempio il bravissimo Bill O’Hanlon suggerisce proprio di introdurre dei cambiamenti

in una di queste variabili:
nel luogo in cui si manifesta il problema, nei tempi,

Nelle modalità, nel coinvolgimento degli altri, e così via…

Insomma, queste sono giusto alcune idee, però spero che abbiano dato gli spunti

per capire come spesso tanto il problema quanto la soluzione…

…sono una questione di definizione.

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