Scott Miller si è appena tolto le scarpe: ha dei calzini celesti con disegnate delle banane gialle sbucciate a metà. Ed è così che inizia il suo intervento sulla pratica intenzionale.
Devo ammetterlo: è brillante. È decisamente l’uomo del momento, nel campo della psicoterapia mondiale. Se il TIMES dovesse dedicare un copertina allo psicoterapeuta dell’anno, ci sarebbe probabilmente la sua facce. Ho alcune riserve su alcuni argomenti portati, ma non possono non essere ispirato dal suo discorso e dai dati che porta a supporto.
L’idea della pratica intenzionale in psicoterapia è semplice: negli ultimi quarant’anni, dati alla mano, l’efficacia della psicoterapia, di qualunque psicoterapia, non è aumentata. Siamo bravi, ma non siamo migliorati. Perché? Stando alle considerazioni di Miller, perché nella nostra professione non si fa quello che si fa nelle altre: pratica intenzionale al di fuori della performance.
Per capirci: una ballerina si allena (pratica deliberata) prima dell’esibizione (performance). In realtà anche lo psicoterapeuta si “allena” (studia, fa corsi, supervisione ecc.), prima della performance (vedere i pazienti), ma rispetto alla ballerina (o a qualunque altra professione sportiva – e non solo) ciò che manca, secondo Miller e una serie di altri autori, è un “allenamento strutturato”, mirato a migliorare capacità specifiche, con un “allenatore” che punti a dargli feedback capaci di aiutarlo a migliorare su aspetti specifici.
Leggiamo libri, vediamo video, andiamo in supervisione, ma non c’è quasi mai un “allenatore” che ci dia feedback specifici e che ci faccia fare allenamenti ad hoc per potenziare le nostre capacità.
– L’empatia è riconosciuto come uno degli elementi fondamentali per costruire l’alleanza terapeutica – dice Scott. – Ma a quanti di voi sono stati dati suggerimenti specifici, calzati sulla vostra singola persona, basati su ciò che attualmente fate, per migliorare l’empatia con i pazienti? L’allenatore di una ballerina la guarda mentre si esibisce e le dice cosa funziona e cosa no. A noi vengono dati suggerimenti aspecifici, generici e non calzati su ciò che attualmente abbiamo fatto durante le nostre “performance”.
Scott Miller ha sviluppato questo concetto nell’ultima decade e se non lo hai mai sentito nominare ti conviene seguirlo. Come detto, non sono d’accordo con tutto, ma il valore è innegabile: lo sto studiando da qualche anno e gli apprendimenti del suo sistema abbiamo deciso di introdurli nella formazione della nostra .
Penso a questo mentre, dopo un breve scambio faccia a faccia con lui, giro in cerca di un po’ d’acqua. Camminando intravedo Paul Koeck ed Elliot Connie, che si trovavano un mese fa come me al congresso della European Brief Therapy Association a Sofia. Li saluterò entrambi a cena, ma sorrido al pensiero di poter dire anch’io: “Ehi, quello lo conosco!”
Appena quindici minuti di pausa e poi mi ritrovo nella stessa sala di prima, ma stavolta con Michael Yapko, altro gigante della Terapia Breve.
Dio quanto mi sento vecchio. Mentre Yapko inizia ricordo nitidamente quando facevo otto ore di congresso senza battere ciglio: ora, dopo due, sento la testa piena e ci metto un po’ a carburare. Mi giustifico pensando al jet lag, all’essermi svegliato anche oggi alle 04.00 e al fatto che, in fin dei conti, questa è la seconda giornata per me.
Yapko è conosciuto principalmente per il suo lavoro con l’ipnosi, le terapie brevi e la depressione, ma in queste due ore il topic è sul global thinking e la capacità di discriminare. L’argomento è interessante, così come interessante è seguire il suo stile: la grossa stazza è tradita da una stabile pacatezza, e da una precisione millimetrica. Sembra stia recitando un copione che ha imparato alla perfezione, nelle parole (non c’è un tentennamento, né una virgola fuori posto) così come nell’espressione. Nel suo sito il suo simbolo è un elefante, ed è proprio ciò che ricorda: sicuro sulle sue gambe, solenne nell’esposizione.
Seduti con un giovane collega, Michael ed io condividiamo le impressioni su Yapko e ci scambio pareri su Scott Miller, che ho visto io, e Bob Bertolino, che ha visto lui. Gli scorsi giorni ho provato la pasta (lo so, lo so… ma ne sentivo così tanto la mancanza) e della carne, oggi mi accontento di un trancio di pizza tutto sommato passabile.
– Hi sweetheart!
Jennifer compare accanto al nostro tavolo. Saluta Michael con un bacio e me con una carezza: è venuta a supportare il marito. Quei due mi fanno una tenerezza infinita e li osservo sorridendo mentre si scambiano qualche parola su come sono andati questi due giorni in cui non si sono visti.
Decido di chiamare anch’io Flavia: ho ancora qualche minuto prima che inizi il prossimo evento, quello di Michael. Ci aggiorniamo reciprocamente su come vanno le cose qui, e in Italia, e mentre lei mi augura un buon proseguimento io le auguro la buona notte.
Tocca a Michael.
Il suo intervento sulla Terapia a Seduta Singola ovviamente è brillante. Vedere quest’uomo di settant’anni schizzare come un grillo mentre ci apre le porte alla sua esperienza è impressionante. Il suo stile è l’opposto di Yapko, in un certo senso è più energizzante: le due ore passano via senza farsi sentire e non c’è un momento in cui gli occhi dell’audience si stacchino da lui. C’è buona parte di quello che ha detto a Milano nell’ultimo fatto insieme, più alcune vecchie cose che mi ricordano la mia prima formazione con lui. Ma mentre lì andava lento e pacato, anche per dare tempo alla traduttrice di riportare le sue parole in italiano, qui si muove e parla come una saetta.
Applausi finali, ringraziamenti, abbracci. Adesso entrambi possiamo goderci i restanti giorni con più rilassatezza.
Ci separiamo di nuovo: dopo l’ultimo intervento della serata Michael deve partecipare alla author’s hour, durante i quali gli autori firmano i libri venduti. Io ne approfitto per salire in camera, stendermi un attimo e prepararmi per il party riservato ai relatori.
La sala non è grande, ma in realtà siamo diverse decine, tutti attorno a una serie di tavoli rotondi. Michael è con Yapko e Bill O’Hanlon. Io siedo con Richard Hill allo stesso tavolo di David Burns e Paul Koeck. Vorrei creare un po’ di contatti, ma la verità è che mi sento incredibilmente stanco – sono sveglio da quasi sedici ore e siamo alla fine del secondo giorno di workshop – e decido di passare: ho ancora due giorni di fronte.
Scambio qualche amabile chiacchiera con Richard, conosco uno studente e la sua compagna dall’Arizona, e finiamo per parlare di Foo Fighters, Donald Trump e differenze culturali.
La gente va via. Rimaniamo in pochi. In fondo alla sala, Bill O’Hanlon, Robert Dilts, Stephen Gilligan, Paul Koeck, Michael Hoyt e un’altra decina di persone sono riunite attorno alla chitarra di Bill, a suonare e cantare Beatles, Rollin Stones, musica country e pezzi di Bill stesso (che da qualche anno proprio alla musica ha deciso di dedicarsi, reinventandosi ancora dopo i suoi sessant’anni). Mi sento fuori dal gruppo, credo di essere in assoluto il più giovane lì presente, ma quando mi avvicino per sedermi nel cerchio Paul mi sorride e mi fa spazio. Prendo uno shaker, inizio ad andare a tempo, mi lascio trasportare…
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