Oggi sono arrivato in California. Starò qui per quasi due settimane, per partecipare alla Brief Therapy Conference che ogni due anni organizza la Milton H. Erickson Foundation di Jeffrey Zeig.
Lo scorso anno ho proposto un mio intervento, “The 9 logics beneath brief therapy interventions” (Le 9 logiche dietro gli interventi di terapia breve), e a febbraio mi hanno detto che lo avevano accettato. È un’idea a cui ho iniziato a pensare parecchi anni fa, ma che solo da un paio ho ripreso a sviluppare. Non credevo ne valesse un granché la pena. Pensavo che fosse buona, mi era utile durante il lavoro con i pazienti, ma… non so, a volte pensi che semplicemente per il fatto che quella idea l’abbia avuta tu – e non un grande accademico o un autore importante – non debba essere poi così geniale. Che poi il punto è che non deve essere “geniale”, no? Ma questo a volte basta per farti mollare, o non portarla avanti quanto potresti.
Ricordo che Michael ed io eravamo su una strada di San Francisco, quasi tre anni fa ormai, quando venni a trovarlo per la prima volta per formarmi con lui in Terapia a Seduta Singola; potrei persino riconoscere il punto in cui eravamo, se lo rivedessi. Gli accennai l’idea: gli dissi che stavo studiando un modo per capire esattamente l’esperienza emozionale correttiva da produrre nella persona di fronte a te. Mi disse, scherzando, che se avessi scoperto una cosa del genere mi avrebbero dovuto premiare col più importante premio di psicoterapia del mondo. Risi, gli risposi che non mi ritenevo capace di fare una cosa simile, ma che stavo lavorando su questa cosa delle logiche soggiacenti gli interventi di terapia breve. Mi invitò a mandargli qualcosa, quando fossi tornato e così feci. Mi rispose di continuare a lavorarci. Ed oggi eccomi qui.
Due ore per Amsterdam, poi altre dieci e mezza per San Francisco. Come faccio sempre quando vado in un Paese angolofono, comincio a immergermi nella lingua durante il viaggio: vedo due film in inglese (non ricordo nemmeno più quali, maledetto jet lag), approfitto di ogni occasione per parlare in inglese e anche di pensare in inglese. Unica eccezione, il libro: stavolta mi sono portato dietro Pensieri lenti e veloci, di Kahneman, che ho in italiano. Sarebbe stato meglio un libro in lingua, ma ho pensato di non volermi nemmeno affaticare troppo cognitivamente: uno stacco potrebbe tornarmi utile.
Arrivo al controllo passaporti dopo una coda estenuante: nello zaino ho parte dei regali per Michael, Jennifer e loro figlio, nonché un paio di copie del mio libro, sotto consiglio di Michael stesso. L’officer mi squadra dalla sua cabina: sembrava di essere in una puntata di Lie to me. Mi chiede ripetutamente le stesse cose: “Come mai sei qui negli States? Dove dimori? Michael, hai detto? È un tuo amico? E come mai sei venuto qui? E questo Michael è un tuo amico? Dove dormirai in questi giorni? Ma questo Michael lo conosci di persona? E come mai sei venuto qui negli States?”. Vuole testare se il mio racconto è coerente, cogliere qualche contraddizione che possa svelare un sospetto sulla mia persona. In realtà questo tipo di domande e il modo perentorio in cui le fanno ti mettono addosso un’ansia tale che contraddirsi è facile – così come è possibile assumere un’espressione alla “Ma mi stai prendendo in giro? Ti detto tre volte che sono qui per una conferenza…”.
Michael non lo vedo da appena un mese, da quando avevamo tenuto assieme il workshop in Terapia a Seduta Singola a Milano, ma è come se ci fossimo salutati pochi giorni fa. Guidando per la periferia di San Francisco e attraversando il Golden Bridge, andiamo direttamente a casa, dove Jennifer, che non vedevo dal 2016, mi abbraccia con calore.
– How you doin’, sweetheart?
– Sto bene Jennifer, e tu? – Sembra una ragazzina, accesa e brillante come me la ricordavo. Chiacchieriamo un attimo, prima di andare in salotto.
Adoro la casa di Michael e Jennifer. È vissuta, piena degli oggetti dei viaggi di Michael, e di libri… Dio quanti libri ha Michael.
– Ma li hai letti tutti?
– Certo. Magari alcuni non li ho letti fino in fondo, ma li ho letti tutti. – Io, che pur leggendo parecchio sono pieno di libri comprati e mai letti, provo un forte imbarazzo. – Mi sono dato una regola – continua Michael quando glielo dico: – non compro un libro che non leggerò subito.
Penso che la seguirò anch’io.
Abbiamo l’equivalente di un aperitivo, nel loro soggiorno, con il cane Maxie – un grosso pastore tedesco a pelo lungo – seduta sul divano. Jennifer ha preparato una deliziosa specialità messicana, di cui temo di aver già scordato il nome. Con Maxie accanto, e con il gatto Kingster – un maine coon rossiccio – che ci raggiunge di lì a poco (in realtà è stato Michael a portare tra noi il confuso Kingster, che non capiva perché il padrone lo avesse disturbato dal suo riposino in camera da letto), finiamo invariabilmente a parlare di animali. Gli racconto di come Flavia mi abbia fatto scoprire l’amore per loro e di come lei sia sempre stata circondata da animali di ogni genere: cani, gatti, tartarughe, conigli, galline, pesci rossi, qualche volatile disperso, qualche riccio profugo… E Jennifer mi racconta di come un evento legato a Michael, lei e il suo cane l’abbia convinta che lui potesse essere l’uomo giusto per lei.
Prima di cena Michael mi porta fuori. Qui vicino c’è un bosco, pieno di bellissime case in legno. Una leggerissima pioggerella tamburella sulla strada, mentre cammino cercando di stare dietro al suo passo da maratoneta. Non so dire il numero di salite e discese fatte, dentro il bosco e giù a Mill Valley e poi di nuovo nel bosco. È come quando venni la prima volta: passavamo dal parlare di politica e razzismo ai fattori comuni in psicoterapia, dai contatti di Michael con gli autori più importante della Terapia Breve alla storia di alcuni locali e negozi della cittadina.
A cena Jennifer prepara un’altra specialità messicana. Giuro che vorrei ricordarmi il nome di queste cose, le ripeto anche due o tre volte in mente, ma scivolano via come la pioggerella, che continua, silenziosa, a strisciare sui vetri di casa. Mi chiede dell’Italia e parliamo di quanto Trump sia un pain in the ass (l’espressione è mia) per tutto il mondo, condividendo qui è lì qualche aneddoto divertente, che mantenga allegro l’umore attorno al tavolo.
Infine, il letto, non prima che Michael mi abbia portato nel suo studio a farmi vedere qualche altro libro: penso che abbia piacere di parlare ancora, e lo stesso vale per me, ma deve vedermi in faccia i segni delle venticinque ore di veglia, perché in poco tempo mi dà la buona notte con un abbraccio.
Doccia (Dio quanto ne avevo bisogno), coperte, un messaggio vocale a Flavia che non sento dall’atterraggio e che in questo momento sta dormendo (sono le 4:00 in Italia) e ora, alle 19.30 cado addormentato, con appena la forza di sistemare questa prima parte del mio resoconto e cliccare su Invia.
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